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Non basta lo smart working a rendere gentile l’azienda

Durante la pandemia, si sono sviluppate alcune riflessioni su come la cultura d’impresa e la prassi manageriale potrebbero affrontare e sostenere il “dopo”; uno tra questi introduce il tema della gentilezza e affronta la necessità di un cambiamento radicale: il saggio “Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile”, di Bianca Straniera Sergio e Guido Stratta (F. Angeli, 2021).

Il tempo dell’incertezza

I contenuti dell’interessante e agile volumetto sortiscono dalla considerazione che con il Covid “ci siamo risvegliati improvvisamente dal nostro delirio di onnipotenza e dalla nostra iperattività; il mondo dell’economia globale, del profitto, della competitività in un attimo ha vacillato, i valori del successo, della ricchezza, dell’intraprendenza senza limiti sono stati bruscamente ridimensionati”. Gli autori sottolineano come l’esplosione dell’emergenza sanitaria e i drammi che ne sono conseguiti “ci hanno messo improvvisamente a confronto con aspetti della nostra personalità che normalmente non vogliamo vedere: fragilità, debolezza, dubbio, indecisione, paura, cioè tutto ciò che non riusciamo a controllare”. In questo frangente storico sono state messe in discussione molte certezze finora acquisite: “siamo cresciuti in un narcisismo onnipotente secondo il quale pensavamo di poter fare tutto. Si è perso per strada l’elemento trascendente, con l’illusione di essere i padroni del mondo”. Guardando indietro nel tempo, ci risulta inevitabile ricordare come, da anni, nella letteratura d’impresa e nei corsi di formazione dominavano i temi legali all’incertezza, alla complessità e alle competenze necessarie per gestirle; con la diffusione del virus e le restrizioni adottate, tutti questi elementi si sono improvvisamente trasferiti dai libri alla realtà.

Il lavoro che cambia

Molti sono stati i repentini, e non voluti, cambiamenti avvenuti nella vita delle organizzazioni; uno tra tutti ha un carattere al tempo stesso empirico e simbolico: l’esplosione del cosiddetto smart working. Il lavoro a distanza infatti, secondo gli autori, “ci ha fatto assistere alla nascita di un nuovo modo di lavorare fondato sul passaggio dal concetto di dipendenza a quello di autonomia e intraprendenza; si apre anche il tema della trasformazione culturale di chi guida altre persone in un modello che non tornerà più come prima, ma che imparerà a coniugare presenza e assenza dalla sede di lavoro”. La diffusione del lavoro a distanza in effetti sembra invitare le imprese a rivedere la cultura del lavoro, spostandosi dal focus sul controllo delle attività verso il monitoraggio dei risultati. Inoltre, e torniamo al libro, “la possibilità di generare flessibilità di orari e luoghi di lavoro è reale, il contributo a ridurre tempi di trasporto e inquinamento è alla nostra portata; non farlo sarebbe un nuovo Medioevo, realizzarlo un nuovo Rinascimento”.

Dall’io al noi

Se in precedenza le organizzazioni avevano i loro fanatismi, legati alla dicotomia io / tu, alla competitività esasperata e alla ricerca di supremazia sull’altro, le prospettive future secondo gli autori dovranno fondarsi sull’ascolto: il disagio globale portato dalla pandemia ha evidenziato “come l’unione sia più forte delle parti: nessuno potrà più avere la presunzione di fare da solo”. Sembra arrivata l’ora della “economia della cura, del lavorare insieme: l’incontro con gli altri, il potenziamento reciproco e il camminare insieme sono le fondamenta per non regredire nel nostro atteggiamento dominante prima dell’emergenza, il narcisismo individualista. La consapevolezza del dubbio e del limite conduce a chiedere aiuto agli altri, perché nulla siamo e possiamo da soli”. I cambiamenti intervenuti in questi due anni nel mondo del lavoro sembrano incoraggiare la cooperazione a scapito del potere individuale, la valorizzazione invece della penalizzazione; sembra che anche nei contesti più difficili sia più sentita la necessità di una maggiore cura per la relazione.

Il valore della vulnerabilità

La situazione attuale inoltre sembra un’occasione unica per fare contatto con le nostre vulnerabilità, per andare un mondo basato su certezze onnipotenti. Secondo gli autori infatti “si tratta di sviluppare una sana compassione quando ci sentiamo più bisognosi, più fragili o più vulnerabili. Il disagio può essere portatore di significati nuovi che ci segnalano che qualcosa sta cambiando, che non possiamo più tenere nell’ombra certi bisogni che premono per essere ascoltati”. Per chi si occupa di persone, come i manager e i formatori, è indubbiamente un periodo complesso ma anche foriero di opportunità: oggi sostenere le persone comporta comprendere lo scenario mutato in cui ci stiamo muovendo, le preoccupazioni scaturite dal clima di precarietà. “L’ambiente che viviamo sta sovvertendo abitudini, pensieri e stili di vita che precedentemente identificavano la nostra epoca improntata a frenesia, iperattività e eccessi di competitività”. Oggi è difficile parlare solo dei risultati sul lavoro, o nella vita, ma appare inevitabile dover cogliere le difficoltà che le persone stanno attraversando, e adottare un approccio in cui la comprensione della vulnerabilità sia una dimensione importante nella relazione con gli altri.

Verso una leadership gentile?

I manager dovranno evolvere verso differenti stili di leadership: “paure, conflitti e aspettative andranno discusse e affrontate e non rimosse, le relazioni umane torneranno al centro”. Le organizzazioni che guardano solo ai numeri appaiono in difficoltà: la cultura d’impresa, per anni, ha affermato il culto dell’efficienza, del controllo e della programmazione, mentre adesso sembra arrivata l’ora di avere maggiore attenzione allo stile della relazione: “questo è un mondo in cui le persone stanno soffrendo e lo stile con cui ci si relaziona è vitale”. Serve dunque gentilezza: gentile è la persona che nel trattare con gli altri ha modi affabili e cortesi, che porta rispetto, che entra in contatto con l’incertezza e la vulnerabilità dell’altro, che convive con i difetti degli altri e ne valorizza le qualità; “prima del tempo dell’incertezza, la persona gentile veniva considerata debole, ora questa caratteristica è la forza che svilupperà il legame con gli altri; fermati nel nostro delirio di onnipotenza che tutto riduce al dominio individuale, una voce profonda ci suggerisce che si ricostruirà solo insieme; non importerà più solo il risultato ma sarà determinante il come lo si raggiunge, il fine comune”.

Gli spunti proposti da Sergio e Stratta immaginano un’epoca, nella cultura delle organizzazioni, che qualcuno ha definito “neo-romantica” contrapposta a quella attuale che si potrebbe qualificare come “positivista”, e come tale baricentrata sui parametri più tangibili, su un elevato stress rivolto al raggiungimento dei risultati e sul controllo delle attività delle persone. Indubbiamente tale prospettiva affascina e coglie elementi profondi, avvertiti come importanti dalle persone che operano nelle imprese in termini di desiderata discontinuità. Tuttavia, il contesto attuale fornisce segnali contrastanti, almeno in parte. A mero titolo di esempio: il lavoro a distanza è spesso inteso in maniera riduttiva (mero obbligo nel lockdown, riduzione dei costi aziendali etc.), non come fattore di cambiamento; un conto è “lavorare da remoto”, altro è lo “smart working”, che dovrebbe essere una cultura organizzativa che attribuisce maggiori responsabilità alle persone incoraggiandole a operare per obiettivi: concedere più libertà “logistica” perde di senso se ciò che importa è ancora e solo il tempo che si passa a lavorare, non spostando l’accento dalla quantità alla qualità del lavoro. Inoltre, rimaniamo scettici su un sillogismo che farebbe derivare dalla crisi dei mutamenti semiautomatici (si diceva “ne usciremo migliori”, oppure “andrà tutto bene”): per sviluppare un cambiamento, è il soggetto che è in gioco, le sue motivazioni e la sua libertà, il suo desiderio di bene anche in situazioni difficili; e il soggetto era tale prima e rimane tale dopo la crisi. Il contesto da solo non basta a generare un cambiamento. Il punto è che ci sia un “io”, e che questo “io” trovi altri “io” con cui ci si richiami e ci si educhi alle dimensioni più vere della persona; così anche da una tragedia come questa ci si potrà risollevare migliori, ed essa potrà rappresentare un’occasione di crescita. Certamente, amaro sarebbe un ritorno sic et simpliciter alle prassi pre-Covid senza essersi dati l’opportunità di un apprendimento comune, confondendo così l’agognato ritorno alla normalità con la paura del cambiamento. Per usare un’espressione di papa Bergoglio, “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla” (Omelia di Pentecoste, 31 maggio 2020).

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