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Dopo il Covid, il Regno dei Cieli

Pubblicato a sorpresa in digitale il 25 febbraio, Carnage è il nuovo album di Nick Cave. Il cantautore australiano ha parlato della sua ultima fatica come di “un disco brutale ma bello, radicato in una catastrofe collettiva”, mentre la rivista RollingStone lo ha definito “il disco definitivo sul lockdown”. Se il precedente Ghosteen era dedicato alla scomparsa del figlio, in Carnage (“carneficina”) Cave affronta il lutto collettivo della pandemia. Il cantautore australiano va al fondo di una catastrofe globale ma senza rinunciare ad alzare lo sguardo, tanto che in ben tre brani si evoca un “regno dei cieli”; il fatto non sorprende in un artista in cui il dramma esistenziale si gioca sovente nella dialettica religiosa, tra perdizione e salvezza. In Carnage la narrazione procede per immagini, le parole sono evocative e lasciano ampio margine di interpretazione; anche la musica rimane a un livello minimale e i brani per lo più si reggono su basi elettroniche. Tutto contribuisce a sospingerci verso un “oltre”.

In Hand of God il protagonista si lascia travolgere da un fiume dalle acque tumultuose mentre risuona il refrain “mano di Dio che viene dal cielo”, a cui si chiede di “non tornare mai più su” e che “lasci che il fiume lanci il suo incantesimo su di me”. Sembra riecheggiare un’idea tanto cara a Nick: “il desiderio di essere toccato dalla mano di colui che non è di questo mondo”; immerso nel dramma, ma con uno sguardo che lo trascende e con un’indomita attesa.

In Old Time ci si chiede dove abbiamo fallito, poiché “abbiamo preso una strada sbagliata da qualche parte / nei vecchi tempi … e la storia ci ha messo in ginocchio / in un tempo freddo / i sogni di ognuno sono morti”; nessuno spazio a facili giustificazioni: Cave non si (e non ci) risparmia nulla, il male non sono gli altri. Eppure “ovunque tu sia, tesoro, non sono così lontano”: non manca la possibilità di una compassione.

White Elephant è un pezzo brutale, il protagonista è un “cacciatore bianco”, una “Venere di Botticelli con un pene”, metafore di un celodurismo così diffuso, che “ti sparerà gratis”, che grida “sto venendo a farti del male”, “vi sparo solo per divertimento” con il suo fucile per elefanti: un testo ricco di violenza e di bruciante attualità con la descrizione di un uomo che “si inginocchia al collo di una statua / la statua dice non riesco a respirare”, riprendendo il grido di George Floyd, ucciso il 25 maggio 2020 dalla polizia a Minneapolis. La catastrofe non è la natura che si ribella, è la cattiveria degli uomini. Nondimeno la canzone si chiude con un gospel liberatorio: “un tempo sta arrivando / un tempo è vicino / per il regno dei cieli”; pare un richiamo a un leitmotiv presente nel precedente cd, “un tempo verrà / la pace verrà”: il desiderio di riconciliazione da parte di un uomo e di un popolo segnati dal lutto.

Albuquerque ammette la nostra impotenza: “non andremo da nessuna parte / in nessun momento, quest’anno, tesoro”, mentre in Lavander Fields domina la desolazione: “Avanzo a fatica in questo mondo furioso / di cui sono veramente stanco … A volte vedo un uccello pallido / che si muove nel cielo / ma è solo la sensazione / la sensazione di quando si muore”. Ciononostante “non chiediamo chi / non chiediamo perché / c’è un regno dei cieli”.

In Balcony Man troviamo il simbolo del lockdown: “sono l’uomo del balcone”, quando “tutto è normale finché non lo è più”; il protagonista sogna di essere Fred Astaire, ma si ricorda che “sono 90 kg di ghiaccio confezionato”, “sono 90 kg di sangue e ossa”, “sono un polpo da 90 kg”. Di fronte all’urto della realtà, una via possibile è l’immaginazione; forse anche per questo un mantra del periodo (“ciò che non uccide ci rende più forti”) diventa, meno illusoriamente, “ciò che non uccide ci rende più folli”. Altro che “andrà tutto bene”. Tuttavia, “questa mattina è incredibile e lo sei anche tu”; lo stupore per il creato si intreccia con quello per la persona cara, il senso del mistero e l’amore rappresentano una possibile risposta al caos.

In occasione di un recente dialogo on line sul disco (Nick Cave & Warren Ellis – Talk Carnage), abbiamo posto a Nick Cave questa domanda: “In Italia qualcuno (Giovanni Ansaldo, ndr) ha definito Carnage un album “apocalittico”; forse, però, apocalisse non significa solo che tutto ha una fine. Che ne pensi?”. Ecco, in sintesi, la sua risposta: “Tu stai parlando di apocalisse in termini di catastrofe. In realtà, io penso che apocalisse abbia molti significati; tuttavia, intesa come catastrofe, credo che la sperimentiamo sempre, in qualche modo, a livello personale, ed è anche attraverso disgrazie come questa che può avvenire per noi una crescita. Non voglio dire che questa pandemia è una cosa positiva. Ciò che sto cercando di dire è che occorre che facciamo in modo che attraverso la pandemia noi possiamo risollevarci come persone migliori, e io credo che ciò succeda allo stesso modo con le nostre calamità personali, cioè che ognuno di noi abbia la capacità di risollevarsi da esse, migliorando in qualche modo sé stesso. Ritengo che Carnage sia un disco incardinato in una catastrofe di qualsiasi natura: e non credo lo si possa ascoltare e non percepire ciò, a un certo punto. Non sono mai stato interessato a scrivere canzoni disperate, tutte le mie canzoni contengono una speranza. Possono trarre origine da disastri, possono emergere da grandi dolori, ma contengono sempre una traiettoria verso l’alto”.

Nick Cave

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